Alla voce “paura” nell’enciclopedia Treccani si legge: “Stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, smarrimento e ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso; più o meno intenso secondo le persone e le circostanze, assume il carattere di un turbamento forte e improvviso quando il pericolo si presenti inaspettato, colga di sorpresa o comunque appaia imminente.”
Per esempio, a me fino ai 6 anni circa, metteva un’ansia assurda la pubblicità della Saila Liquirizia. Il mio problema era la protagonista, vestita come una mistress sadomaso, una parrucca dalla frangetta improbabile e il mantello come quello della strega di Biancaneve. Una sorta di mix tra Anna Oxa, il Conte di Transilvania e Malefica della Bella addormentata in versione Dragqueen. Vuoi l’ambiguità della protagonista, vuoi la musichetta angosciante e lo slogan che cantava “Saila il piacere che uccide”, appena partiva la sigla fuggivo via piangendo disperata.
Per non dire di quella volta che mi ritrovai davanti un poster della tizia al supermercato: io seduta nel carrello della spesa spinto da mia nonna, fu il delirio. Comunque, anche se tutt’oggi a vedere quel vecchio spot non è che mi senta particolarmente a mio agio :D, quando si cresce queste piccole paure se ne vanno.. e vengono sostituite da altre.
Da traduttori magari temiamo che il revisore non approvi le soluzioni da noi trovate e sia poi poco elastico al momento del confronto o, forse anche peggio, abbiamo paura di pentirci delle scelte fatte, una volta che ci si ritrova tra le mani il libro ormai stampato e ‘dato in pasto’ ai lettori. Spesso, almeno inizialmente, certi termini richiedono una ricerca meticolosa e paziente prima di lasciarsi domare, ma più in generale tutto ciò che sembra trascendere ogni nostro controllo ci angoscia.
Mi vengono in mente le lezioni sull’Hamlet di Shakespeare. Discutendo sul “To be or not to be” arrivammo alla conclusione che Amleto era bloccato dalla “fear of the unknown”, la paura di ciò che non si conosce, e cosa c’è di più misterioso, imprevedibile e incontrollabile, della morte e dell’aldilà?
Secondo la tradizione, è proprio nella notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre che le leggi del tempo e dello spazio si dissolvono, permettendo così agli spiriti di tornare sulla terra tra i vivi. Il termine “Halloween” deriva dall’irlandese Hallow E’en, è la forma contratta di All Hallow’s Eve, dove Hallow è la parola arcaica per Santo: appunto, la vigilia di tutti i santi. Questa festa, con tutti i mutamenti subiti lungo il viaggio attraverso i secoli e le culture diverse a cui è approdata, ci arriva dalla cultura celtica. I celti erano un popolo di pastori e lo Samhain (dal gaelico samhuin, summer’s end, fine dell’estate) era il passaggio dall’estate all’inverno, l’inizio del nuovo anno, celebrato con lunghi festeggiamenti. La morte era proprio il tema principale della festa, in sintonia col sonno profondo in cui sembrava calarsi la natura durante l’inverno.
Molto prima dei raccapriccianti sbudellamenti alla Walking Dead, della fotogenica Samara di The Ring e persino dell’apparente brutta influenza gastrointestinale che ha colpito la bimba nel film l’Esorcista, erano gli scrittori a tenerci svegli la notte, creando in noi quello stato di “sublime turbamento”, spesso attingendo da incubi personali, andando a risvegliare quelle paure ataviche che ci portiamo dentro.

Per esempio, guardiamo le ultime due strofe di “The Raven”
Testo originale:
“Be that word our sign of parting, bird or fiend!’ I shrieked upstarting
`Get thee back into the tempest and the Night’s Plutonian shore!
Leave no black plume as a token of that lie thy soul hath spoken!
Leave my loneliness unbroken! – quit the bust above my door!
Take thy beak from out my heart, and take thy form from off my door!’
Quoth the raven, `Nevermore.’
And the Raven, never flitting, still is sitting, still is sitting
On the pallid bust of Pallas just above my chamber door;
And his eyes have all the seeming of a demon’s that is dreaming,
And the lamp-light o’er him streaming throws his shadow on the floor;
And my soul from out that shadow that lies floating on the floor
Shall be lifted- nevermore!“
Traduzione di Antonio Bruno:
“Sia questa parola il nostro segno d’addio, uccello o demonio! – io urlai, balzando in piedi. «Ritorna nella tempesta e sulla riva avernale della notte! Non lasciare nessuna piuma nera come una traccia della menzogna che la tua anima ha profferita! Lascia inviolata la mia solitudine! Sgombra il busto sopra la mia porta! Disse il corvo: «Mai più».
E il corvo, non svolazzando mai, ancora si posa, ancora è posato sul pallido busto di Pallade, sovra la porta della mia stanza, e i suoi occhi sembrano quelli d’un demonio che sogna; e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul pavimento, e la mia, fuori di quest’ombra, che giace ondeggiando sul pavimento non si solleverà, mai più!”
Sappiamo che l’autore non ha lasciato nulla al caso, usa toni cupi e malinconici e un espediente artistico che cattura l’attenzione del lettore: un breve ritornello che ricompare meccanicamente alla fine di ogni strofa. Questa singola breve parola ‘senza speranza’ ha delle caratteristiche ben precise: una sonorità che crei un’intensità prolungata, grazie alla “o” e la “r” e un accordo perfetto con la malinconia dell’opera. Tutto volto a suscitare in noi quel sublime turbamento.
A cominciare dal Castello di Otranto di Horace Walpole, passando per Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Bram Stocker, Howard Phillips Lovecraft (la cui vita in particolare, purtroppo, gli fu d’ispirazione per la sua opera) fino ad arrivare a Stephen King; con misteriosi castelli gotici, creature sovrannaturali né morte né vive, corvi parlanti e scrittori che impazziscono in hotel sperduti, da secoli la paura è oggetto di grandi opere letterarie che ormai fanno parte della nostra cultura.

Che effetto ha su di noi il terrore? Ci sono due reazioni istintive possibili: la paralisi, ci blocchiamo nell’incapacità di decidere sul da farsi; la fuga. Al contempo siamo attratti dalle nostre paure, le osserviamo come piccoli esseri indomabili e affascinanti, in realtà nostri alleati segreti, poiché si accollano la responsabilità di tutti i nostri fallimenti o posticipazioni.
Se faccio vincere la paura di fallire, di non essere “abbastanza”, non agirò mai e non andrò mai avanti. Evitare i problemi poi non fa altro che ingigantirli. Non si può nascondere per sempre la spazzatura sotto il tappeto.
In realtà, benché separate nel tempo e nello spazio, le opere di tutti questi autori racchiudono tra le righe lo stesso messaggio. Siamo gli artefici delle nostre stesse paure. Se non affrontiamo con coraggio ciò che ci terrorizza, non andremo mai avanti in nessun campo, senza un po’ di sangue freddo non c’è sopravvivenza, è la selezione naturale.
Non so se avete presente Monsters & co, il film d’animazione della Pixar: anche in quel caso, i mostri si guadagnano da vivere grazie alle urla dei bambini e il non riuscire a spaventarli più li getta in una profondissima crisi esistenziale.
Quindi, rimandare troppo a lungo l’invio di quel curriculum o la proposta di un progetto in cui crediamo (ma non abbastanza?), ingoiare per troppo tempo i maltrattamenti di colleghi o clienti, ci rende deboli e soggetti al fallimento. Com’è stato detto alla Giornata del Traduttore: nel lamento non c’è business, quindi neanche nella paura che porta all’autocommiserazione.
Il vero mostro non si nasconde sotto il letto, né tantomeno suonerà alla vostra porta la notte di Halloween, siete voi ad averlo creato e continuate a nutrirlo senza neanche accorgervene.
Che si tratti della poca autostima, del terrore di non essere accettati, della paura degli “altri” o peggio “di noi stessi”, una volta sfidati i nostri demoni interiori saremo invincibili. E tu? Di cos’hai veramente paura?
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