Certe volte, l’atto di lavare i piatti può rivelarsi simile a un esercizio zen, o meglio, se a mezzanotte, alla fine di una lunga giornata passata a lavorare al pc, trovi una pila di stoviglie sporche sul lavandino di cucina, solo lo zen o mago merlino possono aiutarti.
Comunque, l’altra sera, proprio mentre insaponavo, sciacquavo e mettevo a scolare le stoviglie, ho iniziato a ripensare a tutti quei bambini travestiti da Batman, Spiderman, fatine e principesse che girano per le strade in questi giorni e la mia mente è tornata indietro a un Carnevale di 23 anni fa.
“Dai che sei bellina! Dai che ti diverti!” così diceva nonna, accompagnandomi alla festa di carnevale all’asilo, mentre io camminavo a testa bassa, per niente convinta.
il mio costume era quello giallo del cartone “La Bella e la Bestia”. Ero ben lungi dal somigliare alla protagonista della favola: continuavo a pestarmi la gonna troppo lunga, rischiando di finire faccia a terra ad ogni passo. In testa un enorme e inspiegabile fiocco giallo. Non so perché questo lontano ricordo si sia conservato così nitido. Forse ad imprimermelo nella mente è stato il disagio di somigliare più a un uovo di Pasqua che alla graziosa Belle, o magari l’inquietudine che mi aveva messo un bimbo travestito da Gabibbo che mi rincorreva urlando “Belandi, bella genteee!”
Scacciate le antiche sensazioni di disagio, ho iniziato a riflettere più in generale e, tra le altre cose, mi è tornata in mente questa poesia, “La Maschera” di Trilussa:
Vent’anni fa m’ammascherai pur’io!
E ancora tengo er grugno de cartone
che servì p’annisconne quello mio.
Sta da vent’anni sopra un credenzone
quela Maschera buffa, ch’è restata
sempre co’ la medesima espressione,
sempre co’ la medesima risata.
Una vorta je chiesi: – E come fai
a conservà lo stesso bon umore
puro ne li momenti der dolore,
puro quanno me trovo fra li guai?
Felice te, che nun te cambi mai!
Felice te, che vivi senza core! –
La Maschera rispose: – E tu che piagni
che ce guadagni? Gnente! Ce guadagni
che la genti dirà: Povero diavolo,
te compatisco… me dispiace assai…
Ma, in fonno, credi, nun j’importa un cavolo!
Fa’ invece come me, ch’ho sempre riso:
e se te pija la malinconia
coprete er viso co’ la faccia mia,
così la gente nun se scoccerà… –
D’allora in poi nascónno li dolori
de dietro a un’allegria de cartapesta
e passo per un celebre egoista
che se ne frega de l’umanità!
Pirandello ha detto “imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Ogni giorno, non facciamo altro che cercare di distinguere maschere dai volti. Decidiamo a cosa correre incontro e da cosa scappare. Vero/Falso, Bene/Male, Amico/Nemico, sono i principali opposti che scandiscono la nostra vita, punti di riferimento, come una bussola o un filo d’Arianna in un labirinto.
Ognuno calza ruoli diversi secondo le diverse situazioni, perché siamo mutevoli nella nostra complessità. Come dice Trilussa, spesso camuffiamo i nostri veri sentimenti per proteggerci, perché non ci fidiamo o perché spesso alcune persone ti chiedono “come va?” senza neanche ascoltare la risposta. Poi ci sono quelle maschere grottesche, che si travestono di ipocrisia.
Almeno una volta nella vita, tutti noi incontriamo quella persona che ci metterebbe volentieri un po’ di cianuro nel caffè e poi ci fa gli auguri di buon Natale, buon anno e/o buon compleanno con un gran sorriso, più simile a una smorfia.
Certo, sapendo qual è il vero volto dietro la maschera, si rimane sempre un po’ sconcertati all’inizio, poi però diventa quasi divertente osservare queste persone che si dimenano inutilmente nella loro messa in scena, mentre si sforzano di sembrare ciò che non sono.
La nostra lingua madre è una delle prime certezze a cui ci aggrappiamo, è lo strumento che ci permette di esprimere le nostre necessità, pensieri ed emozioni, il mezzo che ci dà la capacità di ascoltare ed essere ascoltati. È proprio attraverso l’ascolto che tessiamo il sottile filo invisibile della fiducia, alla base di ogni rapporto degno di chiamarsi tale. La parola è veicolo di conoscenza, decifra enigmi e li crea, costruisce e distrugge, cura o ferisce. Da secoli, prima parlata e poi scritta, descrive e inventa mondi, rendendoli spesso immortali. Gli artigiani della parola, come i traduttori, stipulano un patto implicito per cui devono essere fedeli al significato concepito nella lingua originale. Anche in quei casi in cui serve un adattamento culturale, come le espressioni idiomatiche, l’effetto finale deve rimanere lo stesso.
La maggior parte di ciò che leggiamo o vediamo al cinema e in tv oggi è stato tradotto, ma non è qualcosa di cui tutti sono coscienti, anzi. Forse si pensa che Al Pacino abbia davvero la voce che sentiamo doppiata in italiano, si ignora che dietro le famose frasi de Il Padrino ci sono dei traduttori e degli adattatori dialoghisti. Forse però è un qualcosa che si comprende a pieno solo se si traduce o se si sta a stretto contatto con chi lo fa.
Quindi, c’è un inganno? Tradurre significa tradire la realtà, mettere una maschera?
L’immagine stessa della ‘maschera’ si associa immediatamente al concetto di travestimento, volto finto che si sovrappone a quello vero, nascondendolo. Bugia che nasconde la verità, il Falso che camuffa il Vero, ma non è sempre così. Se da una parte nasconde, dall’altra mostra qualcosa in più. A teatro, prende vita grazie all’attore, in una sorta di influenza reciproca, maschera e interprete si fondono in una cosa sola. L’uno permette all’altra di esistere e di esprimersi al meglio.
Ancor prima della commedia dell’arte, le maschere venivano utilizzate durante i riti propiziatori nelle società primitive, per ingraziarsi le divinità infere. L’aspetto delle maschere nere di Pulcinella e Arlecchino, infatti, sembra derivi proprio da quelle che si pensava fossero le fattezze degli dei del sottosuolo.
Una mia cara amica archeologa mi ha raccontato come le radici del Carnevale si possano vedere chiaramente nei Saturnali dell’antica Roma. In quell’occasione, l’ordine gerarchico sociale veniva capovolto e gli schiavi per qualche giorno potevano fingersi liberi. La maschera non serviva solo a procurarsi una nuova identità, ma anche a prendersi gioco di una realtà opprimente, riuscendo finalmente ad esprimere aspetti che venivano sempre repressi. Permetteva così di liberare un lato di sé stessi che restava ingabbiato per il resto dell’anno.
Confiance, trust, fiducia, tre parole in tre lingue diverse che indicano lo stesso concetto: “Atteggiamento verso gli altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità”. Come equilibristi camminiamo su un filo, ad ogni passo scommettiamo che questo ci sorreggerà, senza dover mai guardare giù.
Il traduttore maschera sì i significati di una lingua originale con un’altra, ma in realtà li libera, facendo in modo che possano arrivare lontano. Questo lavoro ci porta ad analizzare meticolosamente la lingua originale, scavando all’interno delle pieghe e sfumature delle parole, trovando aspetti di cui forse anche l’autore stesso era inizialmente inconsapevole. Si tratta di percepire l’anima dei concetti e portarla dall’altra parte della sponda, essere funamboli in equilibrio tra due lingue, senza tradire mai nessuna delle due. Non a caso, la parola traduzione deriva dalle due parole latine trans e ducere, cioè condurre oltre e quelli che si oltrepassano sono proprio i confini linguistici.
Al tavolo di Amalia di Laura Mattera Iacono dice
Tanti elementi di riflessione. Grazie Silvia
silviaghiara dice
Grazie a te Laura!
Maria Antonelli dice
Brava Silvia! Ottima riflessione che condivido pienamente! Buon lavoro e buona giornata! 😉
silviaghiara dice
Grazie Maria! Buon lavoro e buona giornata a te 🙂