“Fai quello che ami e non lavorerai neanche un giorno in tutta la tua vita” Confucio
Le riconosci subito le persone che amano il proprio lavoro, te ne accorgi dagli occhi che brillano quando, grazie alla loro passione, riescono a trasmetterti il valore di quello che fanno.
Una mia cara amica fa l’archeologa e la guida turistica, è stata lei a farmi conoscere i meandri della Città Eterna quando sono arrivata a Roma per la prima volta, qualche anno fa. Ai tempi io studiavo ancora, ma quel suo raccontare la storia ogni volta in modo diverso con entusiasmo, quasi come se il Colosseo prendesse vita davanti ai nostri occhi, quella sua passione mi ha ispirato tantissimo e lo devo anche a lei se oggi sono consapevole di fare un lavoro in cui credo.
Qualche giorno fa mi sono ritrovata a tradurre un testo dal francese in cui si descriveva la stratigrafia di uno scavo archeologico e mi si è accesa una lampadina. Sì, perché man mano che leggevo rileggevo e traducevo i ragionamenti dell’archeologo, ho trovato moltissime somiglianze tra le fasi del mio lavoro e il suo modo di procedere. Prima un’analisi generale, poi si comincia a scavare e a ritmo di ipotesi, ricerche e conferme si va avanti fino a svelare il vero significato sottostante.
Se l’archeologo deve analizzare strati sovrapposti, gli strati con cui ho a che fare io sono invisibili ad occhio nudo, si intrecciano tra le lettere scritte nero su bianco: ritmo e suono, significato, significante, registri e contesti, lunghezze (nel caso dei copioni) ecc. In questo, come in qualsiasi altro lavoro che si rispetti, non è concesso limitarsi alla superficie.
Peccare di superficialità ha un costo elevatissimo, provate a pensare come sarebbe diverso il mondo se nessuno si fosse preso la briga di interrogarsi e andare più a fondo, non avremmo mai scoperto la Stele di Rosetta che ci ha permesso di comprendere i geroglifici. Se nessuno avesse avuto la curiosità di scoprire cosa c’è sotto le strade di Roma, forse oggi non la vedremmo con gli stessi occhi, per lo stesso motivo io non posso fermarmi alla prima lettura, alla prima definizione del dizionario o al primo ascolto.
Non si tratta di pignoleria in stile Sheldon Cooper, è l’unico modo per far circolare nel mondo un lavoro che sia frutto di dedizione, cura e impegno; la superficialità fa solo danni, bene che vada nascono muri, sempre più alti. Mai come oggi c’è bisogno di andare a fondo senza fermarsi alle apparenze, se non ci facciamo le domande giuste non troviamo mai le risposte e l’unico risultato sarà il silenzio o mondi che si arrovellano su loro stessi.
A novembre ho frequentato due corsi illuminanti in cui ho trovato nuove conferme su quanto sia importante sviluppare un’acuta sensibilità professionale, se tieni a quello che fai.
Al seminario di Valeria Cervetti sulla traduzione audiovisiva abbiamo parlato di come si creano sottotitoli degni di questo nome, definiti come “la magia di 36 caratteri, capace di creare per lo spettatore un mondo nella sua lingua madre”. Dato che nel campo audiovisivo testo e voce sono strettamente interconnessi, Valeria ci ha anche sfidato a passare dall’altra parte dello specchio, ovvero dietro a un leggio a recitare, davanti a tutti.
Io, probabilmente posseduta dal demone dell’entusiasmo, ho accettato la sfida e mi sono ritrovata a recitare davanti a 30 persone la famosa scena di Pulp fiction, Ezechiele 25:17. È stato bellissimo, la cosa strana è che non mi sono neanche preoccupata molto di quel che hanno pensato gli altri di me, ero troppo felice di esserci riuscita, di aver sfidato i miei limiti.
Sono stata poi al corso “tradurre il giornalismo” di Chiara Rizzo e in quel caso Chiara, tra le altre cose, ci ha ricordato quanto sia fondamentale in questo settore tenere a mente che “ogni articolo è un pezzo di opinione, e come tale va rispettata”, quindi se un giornalista usa un lessico sarcastico o pungente, è d’obbligo stare attenti a mantenere lo stile, ed ecco che dobbiamo investire del tempo nella ricerca del termine giusto, consapevoli di avere una responsabilità importante.
Sicuramente dietro a un lavoro ben fatto c’è sempre una persona che ci tiene abbastanza da non lasciare nulla al caso. È un qualcosa che si impara strada facendo, all’inizio non sai neanche tu come funzioni, col tempo impari a maneggiare gli attrezzi del mestiere, capisci cosa ti manca e acquisisci le capacità necessarie, ma è un processo continuo che non finisce mai.
Io credo che il traduttore serio sia uno strano incrocio tra un archeologo e Sherlock Holmes, con il dubbio costante di non essere andato abbastanza a fondo, la paura di essersi fatto sfuggire qualche strato nascosto e la consapevolezza di non dover mai smettere di farsi domande, altrimenti nessuno scoprirà mai cosa c’è sotto la superficie, no?
[…] imparanoiarmi un po’ e farmi un po’ di domande e avere la scusa per mascherarmi da archeologa o Sherlock Holmes e trovare la cura ai miei mali sfamando la mia curiosità. (E sono ancora in tema col […]